giovedì 9 aprile 2015

JOHN FANTE: SCRITTORE CULT "PER CASO"



Leggenda vuole che a scoprirlo sia stato il vecchio Hank Chinasky: ossia, il mitico Charles Bukowsky. Tutto per puro caso. Un dialogo, un minuscolo dialogo ficcato, quasi insignificante, all’interno del suo romanzo “Women” e contenente quella “storica” ammissione: il suo scrittore preferito era  un “italian” di nome John Fante.
L’editore della Black Sparrow Books che gli telefona  per complimentarsi per la “genialata” di aver inserito nel romanzo il nome di “fantasia” di uno scrittore mai esistito e l’inattesa reazione di Bukowsky: “ma quale nome di fantasia? John Fante  è il più grande scrittore vivente… ha scritto romanzi veri…John Fante è il mio Dio!...ora il poveraccio sta tirando le cuoia…”.

Era l’inizio degli anni ’80 e un signore anziano, italiano d’origine, stava, ormai cieco e con le gambe mozzate da un diabete divorante, penosamente adagiato in un lettino dell’ospedale di Woodland Hills. Venne raggiunto al capezzale dal grande scrittore americano e dal suo editore. Era scoccata l’ora: anche l’America, anche l’Europa, tutto il mondo, avrebbero fatto conoscenza, di lì a poco, della splendida prosa di questo misconosciuto italo-americano. L’editore, infatti, decise immediatamente di ristampare i suoi romanzi “ufficiali”: “Aspetta fino a primavera Bandini”, “Chiedi alla polvere”, “Dago Red” (raccolta di racconti) e “Full of life” e da allora, tanta, tantissima gente lo avrebbe amato, letto, divorato e mai più abbandonato.

Bukowsky curò proprio l’introduzione di “Chiedi alla polvere” il romanzo che l’aveva più influenzato, ispirato e che, come ammise lo stesso Buk, aveva rappresentato per lui una sorta di iniziazione alla scrittura “...capii subito di essere arrivato in porto (…) “le parole scorrevano con facilità, in un flusso ininterrotto. Ognuna aveva la sua energia ed era seguita da un’altra simile. La sostanza di ogni frase dava forma alla pagina e l’insieme risultava come scavato dentro di essa. Ecco, finalmente, uno scrittore che non aveva paura delle emozioni. Ironia e dolore erano intrecciati tra loro con straordinaria semplicità. Quando cominciai a leggere quel libro mi parve che mi fosse capitato un miracolo, grande e inatteso



Ma chi era John Fante? Era un americano di seconda generazione (nato a Denver in Colorado nel 1909) originario di un paesino in provincia di Chieti: Torricella Peligna. Figlio di Nick Fante e di Maria Capoluongo.
Aveva assorbito e conservato una certa italianità di allora, quella dei pranzi abbondanti, sugosi e saporiti e l’alone disperato e disperante di una religione cattolica a sfondo penitenziale con spire di rosari incrociati e nenie lacrimose, quella di chi spesso rinnegava il proprio cognome così visibilmente poco americano e, al contrario, aspirava a diventare uno di loro: un wasp, ossia casa, prato verde e Cadillac tirata a lucido. Tranne quando il grande Joe Di Maggio riportava prepotentemente in auge l’orgoglio italico obbligando tutti a dichiararsi felicemente “Italians!!!”
John Fante era soprattutto un giovane che amava scrivere, galvanizzato dalla scoperta di uno scrittore come Sherwood Anderson che, con la sua raccolta di racconti “Ohio – Winesburg”, aveva dimostrato al mondo intero che la prosa secca, semplice, i bozzetti di vita ripresi dal vero erano scrittura nobile, diretta, che  diceva tutto.
I primi tentativi di Fante scrittore andarono proprio in quella direzione: racconti brevi, ritratti di vita reale di “paesani” e filippini, “greaser” messicani e americani wasp irraggiungibili, “pezzi” ancora sbilenchi, bisognosi di revisione eppure pulsanti di vita e di carne. Tanto che il grande editore dell”American Mercury” e scrittore per il “New Yorker”, H.L. Mencken lo nota, lo incoraggia, lo sostiene anche con qualche assegno non sempre striminzito e gli caldeggia le sacre regole del buon scrivere.
Fante insiste, fa mille lavoretti per mantenersi da vivere, tiene una fitta corrispondenza con la madre che lo foraggia con un’infinita schiera di nomi di santi e madonne da invocare per avere la grazia. Riempie foglio su foglio di frasi, paragrafi, capitoli, con la sua rugginosa macchina da scrivere. E alla fine, dopo un romanzo rifiutato (“Le strade per Los Angeles”, poi pubblicato postumo), la montagnola bianconera che giace in un angolo vicino al suo letto diviene finalmente il suo primo romanzo che trova un editore: “Aspetta fino a primavera, Bandini”.  Era il 1937.
Il romanzo, pur apprezzato, non riesce a sfondare veramente. La critica ne loda lo stile, infila Fante nel troppo generico “girone” degli scrittori realisti, apprezza la buona tenuta della trama e dei dialoghi, il pubblico rispose con troppa sobrietà: vendite, dunque, modeste. Quello che la critica non riuscì subito a notare era il succo di ironia e ferocia spesso auto-denigrante che l’affresco familiare di “Aspetta fino a primavera, Bandini” conteneva: tre generazioni di italiani sullo sfondo e le ambizioni di un italiano “piccolo piccolo” in balia della sua fame di fama, tiranneggiato dall’asfissia della famiglia italiana “all’antica” e l’impenetrabilità  della struttura sociale americana. Nel mezzo, una prosa audace, corrosiva, piena di verve e umorismo.
Una prova ottima che meritava sicuramente migliore sorte.
John Fante accusò il colpo ma continuò imperterrito a scrivere dietro le spinte del sempre più prezioso Mencken. Iniziò a “buttare giù” un romanzo “d’inchiesta” sul lavoro sottopagato dei filippini che non riuscì mai a concludere per poi procedere alla stesura di quella che diverrà la sua opera più rappresentativa, famosa, influente: “Chiedi alla polvere”.  Pubblicata nel 1939
Fante in questo romanzo “libera” ancora di più la sua scrittura, la intinge negli angoli scarni e maleodorante di una Los Angeles notturna e amara, la riempie di amore caustico per fare incrociare le storie di Arturo Bandini, scrittorucolo italiano aspirante americano e l’ancor più reietta Camilla Lopez, cameriera messicana. La grande città a ingoiarli nella loro disperata ricerca di se stessi, nella loro complicata relazione sentimentale, nelle loro ambizioni sempre più smorzate. E poi quello stile, ineguagliabile:  frasi secche e ipnotiche, umorismo spietato.
Anche in questo caso, grandi apprezzamenti ma vendite non esaltanti: meno di tremila copie, ricorderà lo stesso John Fante proprio in uno degli ultimi romanzi. Ma la sua scrittura colpisce, stordisce gli addetti i lavori. Gli studios americani hanno le orecchie grandi e la vista lunga.  Quello scrittore non può sfuggire alle fitte maglie dell’industria cinematografica, al businnes del cinema.
Denaro, tanto denaro. Con poco impegno da metterci: revisionare le sceneggiature, rivedere qualche dialogo, tutto qui. Un’offerta che non si può rifiutare. 


John Fante a Hollywood, come sceneggiatore, guadagna in un settimana quello che il mestiere di muratore del padre riesce a produrre in un anno, acquista una splendida casa a Malibu (Nel 1937 aveva sposato la poetessa Joyce Smart) e raggiunge una certa tranquillità economica. John si immerge nel mondo patinato dell’ambiente cinematografico a colpi di martini e partite di golf, gossip coi colleghi, ipocrisie d’ambiente. La scrittura, la scrittura vera, comincia a sfuggirgli gradualmente di mano. I film per cui scrive sono robettuola commerciale, western e sdolcinatezze per un pubblico ritenuto idiota, nutrito a bugie e popcorn e deve tenere la sua penna sempre più ferma, controllata, vincolata alle urgenze commerciali di quel mondo di celluloide.
Fante ne soffre, comincia a sprofondare nel vizio del bere, il suo caratteraccio tendente alla sfrontata irriverenza lo allontana anche dai salotti buoni. Proprio nell’ultimo suo romanzo, “I sogni di Bunker Hill”, dettato alla propria moglie in letto di morte (e pubblicato nel 1985 due anni dopo la sua dipartita), raccontò dell’amara esperienza hollywoodiana che lo allontanò dalla sua amata scrittura.
E’ questo, in fondo, il nucleo della storia umana, della commedia umana, di John Fante: la lotta tra il suo vero amore: la scrittura e la sua grande paura ancestrale: ritornare a essere un indigente. John Fante scelse di non essere più povero, come un emigrante qualsiasi, strozzando il proprio talento anzi nascondendolo, quasi vergognandosene. John Fante, in verità, non aveva mai smesso di scrivere. Ma lo aveva taciuto. Soprattutto a se stesso. Romanzi usciti postumi come “A ovest di Roma” o lo stesso “Full of life” suo primo e vero successo, pubblicato nel 1952, sono la testimonianza del grande e inossidabile talento di questo splendido narratore. Oggi John Fante è un autore “riscoperto”, lanciato “per caso” da un dialogo minuscolo di Bukowsky, un piccolo seme esploso che ha finito per nutrire di letteratura vera milioni di persone, fan accaniti e simpatizzanti di questo piccolo, grande genio letterario italiano (ma anche un po’ americano).

(S. F.)

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