Leggenda vuole che a scoprirlo
sia stato il vecchio Hank Chinasky: ossia, il mitico Charles Bukowsky. Tutto per
puro caso. Un dialogo, un minuscolo dialogo ficcato, quasi insignificante,
all’interno del suo romanzo “Women” e contenente quella “storica” ammissione: il
suo scrittore preferito era un “italian”
di nome John Fante.
L’editore della Black Sparrow
Books che gli telefona per complimentarsi
per la “genialata” di aver inserito nel romanzo il nome di “fantasia” di uno
scrittore mai esistito e l’inattesa reazione di Bukowsky: “ma quale nome di fantasia? John Fante
è il più grande scrittore vivente… ha scritto romanzi veri…John Fante è
il mio Dio!...ora il poveraccio sta tirando le cuoia…”.
Era l’inizio degli anni ’80 e un
signore anziano, italiano d’origine, stava, ormai cieco e con le gambe mozzate
da un diabete divorante, penosamente adagiato in un lettino dell’ospedale di
Woodland Hills. Venne raggiunto al capezzale dal grande scrittore americano e
dal suo editore. Era scoccata l’ora: anche l’America, anche l’Europa, tutto il
mondo, avrebbero fatto conoscenza, di lì a poco, della splendida prosa di
questo misconosciuto italo-americano. L’editore, infatti, decise immediatamente
di ristampare i suoi romanzi “ufficiali”: “Aspetta fino a primavera Bandini”,
“Chiedi alla polvere”, “Dago Red” (raccolta di racconti) e “Full of life” e da
allora, tanta, tantissima gente lo avrebbe amato, letto, divorato e mai più
abbandonato.
Bukowsky curò proprio
l’introduzione di “Chiedi alla polvere” il romanzo che l’aveva più influenzato,
ispirato e che, come ammise lo stesso Buk, aveva rappresentato per lui una
sorta di iniziazione alla scrittura “...capii
subito di essere arrivato in porto (…) “le parole scorrevano con facilità, in
un flusso ininterrotto. Ognuna aveva la sua energia ed era seguita da un’altra
simile. La sostanza di ogni frase dava forma alla pagina e l’insieme risultava
come scavato dentro di essa. Ecco, finalmente, uno scrittore che non aveva
paura delle emozioni. Ironia e dolore erano intrecciati tra loro con
straordinaria semplicità. Quando cominciai a leggere quel libro mi parve che mi
fosse capitato un miracolo, grande e inatteso
Ma chi era John Fante? Era un
americano di seconda generazione (nato a Denver in Colorado nel 1909)
originario di un paesino in provincia di Chieti: Torricella Peligna. Figlio di
Nick Fante e di Maria Capoluongo.
Aveva assorbito e conservato una
certa italianità di allora, quella dei pranzi abbondanti, sugosi e saporiti e
l’alone disperato e disperante di una religione cattolica a sfondo penitenziale
con spire di rosari incrociati e nenie lacrimose, quella di chi spesso
rinnegava il proprio cognome così visibilmente poco americano e, al contrario,
aspirava a diventare uno di loro: un wasp, ossia casa, prato verde e Cadillac
tirata a lucido. Tranne quando il grande Joe Di Maggio riportava prepotentemente
in auge l’orgoglio italico obbligando tutti a dichiararsi felicemente
“Italians!!!”
John Fante era soprattutto un
giovane che amava scrivere, galvanizzato dalla scoperta di uno scrittore come
Sherwood Anderson che, con la sua raccolta di racconti “Ohio – Winesburg”,
aveva dimostrato al mondo intero che la prosa secca, semplice, i bozzetti di
vita ripresi dal vero erano scrittura nobile, diretta, che diceva tutto.
I primi tentativi di Fante scrittore
andarono proprio in quella direzione: racconti brevi, ritratti di vita reale di
“paesani” e filippini, “greaser” messicani e americani wasp irraggiungibili,
“pezzi” ancora sbilenchi, bisognosi di revisione eppure pulsanti di vita e di
carne. Tanto che il grande editore dell”American Mercury” e scrittore per il
“New Yorker”, H.L. Mencken lo nota, lo incoraggia, lo sostiene anche con
qualche assegno non sempre striminzito e gli caldeggia le sacre regole del buon
scrivere.
Fante insiste, fa mille lavoretti
per mantenersi da vivere, tiene una fitta corrispondenza con la madre che lo
foraggia con un’infinita schiera di nomi di santi e madonne da invocare per
avere la grazia. Riempie foglio su foglio di frasi, paragrafi, capitoli, con la
sua rugginosa macchina da scrivere. E alla fine, dopo un romanzo rifiutato (“Le
strade per Los Angeles”, poi pubblicato postumo), la montagnola bianconera che
giace in un angolo vicino al suo letto diviene finalmente il suo primo romanzo
che trova un editore: “Aspetta fino a primavera, Bandini”. Era il 1937.
Il romanzo, pur apprezzato, non
riesce a sfondare veramente. La critica ne loda lo stile, infila Fante nel
troppo generico “girone” degli scrittori realisti, apprezza la buona tenuta
della trama e dei dialoghi, il pubblico rispose con troppa sobrietà: vendite,
dunque, modeste. Quello che la critica non riuscì subito a notare era il succo
di ironia e ferocia spesso auto-denigrante che l’affresco familiare di “Aspetta
fino a primavera, Bandini” conteneva: tre generazioni di italiani sullo sfondo
e le ambizioni di un italiano “piccolo piccolo” in balia della sua fame di fama,
tiranneggiato dall’asfissia della famiglia italiana “all’antica” e
l’impenetrabilità della struttura
sociale americana. Nel mezzo, una prosa audace, corrosiva, piena di verve e
umorismo.
Una prova ottima che meritava
sicuramente migliore sorte.
John Fante accusò il colpo ma
continuò imperterrito a scrivere dietro le spinte del sempre più prezioso Mencken.
Iniziò a “buttare giù” un romanzo “d’inchiesta” sul lavoro sottopagato dei
filippini che non riuscì mai a concludere per poi procedere alla stesura di
quella che diverrà la sua opera più rappresentativa, famosa, influente: “Chiedi
alla polvere”. Pubblicata nel 1939
Fante in questo romanzo “libera”
ancora di più la sua scrittura, la intinge negli angoli scarni e maleodorante
di una Los Angeles notturna e amara, la riempie di amore caustico per fare incrociare
le storie di Arturo Bandini, scrittorucolo italiano aspirante americano e
l’ancor più reietta Camilla Lopez, cameriera messicana. La grande città a
ingoiarli nella loro disperata ricerca di se stessi, nella loro complicata
relazione sentimentale, nelle loro ambizioni sempre più smorzate. E poi quello
stile, ineguagliabile: frasi secche e
ipnotiche, umorismo spietato.
Anche in questo caso, grandi
apprezzamenti ma vendite non esaltanti: meno di tremila copie, ricorderà lo
stesso John Fante proprio in uno degli ultimi romanzi. Ma la sua scrittura
colpisce, stordisce gli addetti i lavori. Gli studios americani hanno le
orecchie grandi e la vista lunga. Quello
scrittore non può sfuggire alle fitte maglie dell’industria cinematografica, al
businnes del cinema.
Denaro, tanto denaro. Con poco
impegno da metterci: revisionare le sceneggiature, rivedere qualche dialogo,
tutto qui. Un’offerta che non si può rifiutare.
John Fante a Hollywood, come
sceneggiatore, guadagna in un settimana quello che il mestiere di muratore del
padre riesce a produrre in un anno, acquista una splendida casa a Malibu (Nel
1937 aveva sposato la poetessa Joyce Smart) e raggiunge una certa tranquillità
economica. John si immerge nel mondo patinato dell’ambiente cinematografico a
colpi di martini e partite di golf, gossip coi colleghi, ipocrisie d’ambiente.
La scrittura, la scrittura vera, comincia a sfuggirgli gradualmente di mano. I
film per cui scrive sono robettuola commerciale, western e sdolcinatezze per un
pubblico ritenuto idiota, nutrito a bugie e popcorn e deve tenere la sua penna
sempre più ferma, controllata, vincolata alle urgenze commerciali di quel mondo
di celluloide.
Fante ne soffre, comincia a
sprofondare nel vizio del bere, il suo caratteraccio tendente alla sfrontata
irriverenza lo allontana anche dai salotti buoni. Proprio nell’ultimo suo
romanzo, “I sogni di Bunker Hill”, dettato alla propria moglie in letto di
morte (e pubblicato nel 1985 due anni dopo la sua dipartita), raccontò dell’amara
esperienza hollywoodiana che lo allontanò dalla sua amata scrittura.
E’ questo, in fondo, il nucleo
della storia umana, della commedia umana, di John Fante: la lotta tra il suo
vero amore: la scrittura e la sua grande paura ancestrale: ritornare a essere
un indigente. John Fante scelse di non essere più povero, come un emigrante
qualsiasi, strozzando il proprio talento anzi nascondendolo, quasi
vergognandosene. John Fante, in verità, non aveva mai smesso di scrivere. Ma lo
aveva taciuto. Soprattutto a se stesso. Romanzi usciti postumi come “A ovest di
Roma” o lo stesso “Full of life” suo primo e vero successo, pubblicato nel 1952,
sono la testimonianza del grande e inossidabile talento di questo splendido
narratore. Oggi John Fante è un autore “riscoperto”, lanciato “per caso” da un
dialogo minuscolo di Bukowsky, un piccolo seme esploso che ha finito per
nutrire di letteratura vera milioni di persone, fan accaniti e simpatizzanti di
questo piccolo, grande genio letterario italiano (ma anche un po’ americano).
(S. F.)